Lilja 4-ever – Lukas Moodysson [2002]

Lilja è una sedicenne ragazza che vive nei bassifondi di una città russa. La madre la abbandona, la zia se ne infischia di lei e tutto ciò che ha è il suo corpo e un amichetto più piccolo di lei. Nel disagio più totale, entrambi sognano di poter evadere da quel carcere a cielo aperto, ma le cose andranno tutt’altro che così…
Due anni dopo l’intelligente e spassoso Together, il regista Lukas Moodysson abbandona il registro della commedia per raccontare una storia tragica, ispirata alla drammatica vita di una sconosciuta ragazza di nome Dangoule Rasalaite, morta suicida dopo essere stata sfruttata sessualmente pur non essendo ancora maggiorenne.
Il film è dunque l’occasione per non dimenticare la dilaniante piaga della prostituzione minorile, e al contempo per evidenziare l’estremo disagio sociale che vige ancor oggi in molte zone del mondo, soprattutto nei sobborghi di stati come quelle dell’est e dell’ex- unione sovietica. Disagio che è un vero e proprio assassinio dell’individuo inteso come singola entità fine a sé stessa, prima ancora che alla società. Disagio, per l’appunto, che se prosciuga l’animo degli adulti che vivono una situazione di quel tipo, sbarra la vista dell’adolescente che per natura è portato a sognare e a fantasticare, ma che davanti a sé avrà a malapena la possibilità di generare sfuggevoli utopie costrette a rimanere il solitario faro che guida nelle scelte quotidiane e che al contempo illude tristemente le persone facendo credere di poter un giorno essere raggiunto.
Tutto è desolato e depresso nella storia raccontata. Dalle persone, vecchie e disilluse o giovani e stupide, agli ambienti totalmente degradati e lasciati in balìa del tempo che tutto invecchia. Nulla lascia spazio a spiragli di ottimismo. Persino il caseggiato dove Lilja abita è fortemente paragonabile all’ex caserma ormai abbandonata che a un certo punto del film si troverà a visitare. Ogni cosa è priva di vita, e della categoria “cose” fanno parte anche le persone.
Malgrado le similitudini registiche con Together, l’atmosfere sono diametralmente opposte. Qui sono acri, taglienti. E la camera a mano, costante del cinema scandinavo dal manifesto cinematografico ideato da Lars Von Trier, Dogma 95, in avanti, non fa altro che affilare perpetuamente le lame della narrazione che penetrano poco a poco sempre più nello spettatore, risucchiato anch’esso nella deprimente vita della speranzosa Lilja.
Controluci, scene al buio, l’estetica è un optional, perché è il realismo che deve essere inscenato.
La tremolante macchina da presa segue per tutto il film le vicende della protagonista, indugiando spesso sul suo puerile ed enigmatico volto, con quel suo straordinario sguardo vacuo e disilluso che se può essere paragonato, può soltanto richiamare la malinconìa di una Anna Karina, musa e moglie del miglior Godard.
Ma la Lilja interpretata da Oksana Akinshina va ben aldilà di un semplice sguardo, e l’attrice sa restituirci un personaggio perfetto, credibile al mille per cento, una figura che sa muoversi negli spazi con fin troppa disinvoltura, tanto da contribuire in grandissima a parte a far dimenticare allo spettatore di stare guardando una semplice messinscena.
E se l’irraggiungibile Anna Karina è ricordata in più punti dall’atteggiamento della Akinshina, lo si deve in gran parte al ruolo che proprio la Karina interpretò nel 1962 nel capolavoro di Jean-Luc Godard, Vivre Sa Vie. Da quel tempo a oggi sono stati girati molti film sul tema della prostituzione indotta ma, bisogna dirlo, nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte a opere superficiali, che già soltanto per il fatto di trattare un tema delicato credono di poter essere categorizzabili come film d’autore. Erano dunque anni che si attendeva un film di tale intensità sul tema.
Lilja come Nana. La città russa prima e svedese poi, come Parigi. Le differenze non sono davvero molte. La perversione laida che arriva a sfiorare la pedofilia passando attraverso l’estasi dell’ingannevole illusione di poter possedere ogni cosa grazie al potere del denaro, è la costante che si nutre dell’impulso vitale che spinge le persone a mettersi in gioco, fisicamente e psicologicamente, al fine di poter ottenere ciò che serve per poter vivere.
E’ questa dunque una bella società? E’ una buona società quella che per sfizio del potente uccide il debole?
Notevole in questo senso è il meraviglioso film L’Odio di Mathieu Kassovitz del 1995 con uno strepitoso giovane Vincent Cassel, dove lui e altri due ragazzi dei bassifondi di una cittadina francese non sognano altro che fuggire da quella situazione insostenibile che ogni giorno li affonda sempre più nel fango sul quale sono costretti a camminare.
E così è Lilja, ragazza dalle mille fantasie e speranze, ma che finirà per essere un’altra santa protettrice delle ragazze sfruttate.
Quel che penalizza un po’ il film è la pesantezza che lo attanaglia, e che non agevola propriamente la visione a qualsiasi tipo di spettatore. Questo è a mio avviso da imputare una storia un po’ troppo sincopata e al contempo ristagnante. L’intreccio non è molto vario e lo spettatore può avere l’impressionare di stare sfogliando un album di fotografie sbiadite, più che di stare osservando un’omogenea storia raccontata.
Non che sia un problema, è stata un scelta stilistica, però non troppo felice.
In ogni caso il film si fa guardare e sa offrirci spunti davvero interessanti come gli sprazzi di pura visionarietà della protagonista. Sono visioni reali, assolutamente reali, talmente reali da spiazzare lo spettatore nel vedere un bambino con le ali. Più che paragonabile a un onirismo felliniano, lo accosterei alle visioni interiori di un Bergman. Particolare, decisamente.
Lilja 4-ever non è un capolavoro assoluto, ma un bellissimo film, angosciante e opprimente, ma proprio per questo intimo e non retorico.
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