Shtetl (in yiddish שטעטל)

«Shmulik parlava di tesori, di maghi, di principi e principesse, tutte cose che appartenevano al mondo tangibile e presente. Il nonno, invece, disdegnava questo mondo e trasportava se stesso e suo nipote nel mondo futuro, in quello degli angeli, dei cherubini e dei serafini, vicino al trono di Gloria, vicinissimo a Lui, al Re dei Re, all’Uno…» Lunga citazione che riprendiamo da Tornando dalla fiera – autobiografia di Shalom Alechem, pubblicata in questi giorni dalla Feltrinelli -, perché ci sembra che in tali poche righe risieda il senso non soltanto della narrativa di questo autore, ma di tutta la letteratura yiddish. La tradizione religiosa mescolata con quella orale popolare. Shalom – come purtroppo siamo stati costretti ad apprendere soprattutto da cupe cronache di guerra – significa Pace. Alechem (di norma scritto Aleichem) significa su di te o sia su di te (non ci sembra che l’espressione come stai? – proposta dal risvolto del libro feltrinelliano – ne sia una traduzione corretta). La-pace-sia-su-di-te, insomma. Tale lo pseudonimo che assunse, per la propria attività di scrittore, Shalom (pronunciato Sholem) Rabinowitz, nato in Russia nel 1859 e morto negli Stati Uniti nel 1917, uno dei tre grandi “classici” della letteratura yiddish, con Mendele Mocher Sforim (Mendele il libraio, ovvero Sholem Jacob Abramowitz) e con I.L. Peretz.
Lo yiddish affonda le proprie radici nel tedesco antico e si arricchisce nel tempo con apporti dall’ebraico e dalle lingue slave e medio orientali. E’ la parlata della comunità ebraico orientale, ovvero degli ashkenaziti, degli ebrei «tedeschi», allontanati nella quasi totalità dai territori germanici nel medioevo e rifugiatisi nelle vaste e poco popolate piane della Polonia, della Lituania e della Russia europea meridionale (Galizia, Ucraina, Bessarabia, Bucovina). Lingua popolare per eccellenza, che per le esigenze colte e letterarie cedeva all’ebraico, venendo usata tutt’al più per libri di devozione (soprattutto le Tehinoth, ovvero i libri di preghiera per le donne) o per poemi e romanzi cavallereschi tradotti e adattati dalla tradizione cristiana. Fino alla celebre compilazione del Maase Buch (Libro dei racconti), raccolta di oltre duemila storie di origine soprattutto talmudica, ma con apporti dal folclore dei diversi paesi europei frequentati dagli ebrei orientali. Di nuovo: religione e folclore. Fu questa lingua, parlata da milioni di individui, ma semiclandestina nella scrittura, che venne agitata nel diciottesimo secolo da due poderosi fenomeni socioculturali di segno contrapposto. Da un lato la (tedesca) Haskalah, ovvero l’Illuminismo ebraico. Dall’altro il movimento mistico (europeo orientale) del chassidismo. Tutto fatto di razionalità il primo, che propugnava un’apertura della cultura ebraica al moderno. Tutto fatto di abbandono «povero, popolare» in Dio e nei suoi oltre seicento mitzvoth (comandamenti) il secondo.

Lingua di quest’ultimo era per natura il «popolare» yiddish, come per l’altro lo era il «colto» tedesco. Ma anche l’Illuminismo ebraico, se volle penetrare nelle tradizionaliste masse ebreo-orientali, fu costretto ad adottarne la lingua. Una delle conseguenze fu appunto la nascita di una narrativa yiddish con dignità di vera e propria letteratura, al di là dei testi di devozione e folclore. Alle origini di tale letteratura colta, come già detto, sta la famosa «triade», con alla testa Mendele in veste di fondatore e Shalom Aleichem in veste di elemento di punta. Morti singolarmente tutti e tre (con Peretz) tra il 1915 e il ’17, quasi che l’ebraico Angelo della Morte avesse stabilito che la loro stagione era complessivamente conclusa.
Ben noti in Italia sono i racconti di Shalom Aleichem imperniati sulla figura di Teiwe il lattaio o sull’immaginaria città di Kasrilevke. Qualche tempo fa abbiamo avuto occasione di ricordare su queste stesse pagine il romanzo epistolare “Menachem Mendel”, affabile epitome del vagare perennemente inquieto del popolo ebraico, dell’«ebreo errante». Ebreo errante che si riconosce anche nelle tenere pagine dell’autobiografia e quindi nella stessa figura dell’autore, il quale racconta di se stesso e della propria famiglia sempre in movimento per villaggetti (shtetl) , cittadine e città della Russia meridionale. Se non era in conseguenza di un esperimento economico, era a causa di un tracollo finanziario, o di un lutto. E così, via se ne andava il ragazzino Shalom con i fratellini e le sorelline, da un posto all’altro, da una casa all’altra – con gli zii, con i nonni -, da un gruppo di monelli-amici all’altro, da una schul all’altra, da un’intero microcosmo all’altro, compiendo la propria educazione sentimentale e culturale di giovane russo ebreo, fornendo le prime prove di scrittura.
Storie popolari e storie di Dio, frullate, frantumate, vorticate, mantecate le une con le altre fino a farle diventare un impasto succulento come il pesce imbottito dello shabbath, come le frittelle ripiene delle occasioni festive. Un gusto casereccio. Ma la «casa», si sa (home o heimat che essa sia), è la sede naturale di ogni popolo. Dalla «casa» russa Shalom Aleichem emigrò negli Stati Uniti, dove la morte lo colse prematuramente nel 1916 (un anno prima di Mendele e uno dopo Peretz). Stava appunto componendo l’autobiografia (pubblicata a puntate sulla pubblicazione yiddish «Der Tog»), che si troncò così nelle prime fasi dell’arcano viaggio della vita. La definì «il libro dei miei libri, il Cantico dei Cantici dell’anima mia» e volle intitolarla “Tornando dalla fiera”. La fiera è come la vita: soltanto quando ne ritorna, chi l’ha visitata può farne il bilancio con calma, senza più la fretta che lo spingeva a raggiungerla, ad affrontarne le mille complicazioni e meraviglie. E’ soltanto allora che egli può, finalmente, «indugiare a raccontare… chi ha incontrato… che cos’ha visto, che cos’ha sentito».
© Mario Biondi Sholem Aleichem, “Tornando dalla fiera”” (1988) Feltrinelli

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