Terzo in ordine cronologico, ma quarto nelle intenzioni, dei sei racconti morali, La Collezionista è probabilmente uno dei film più densi di tutta la filmografia di Eric Rohmer.La Collezionista è un film sul sé e sui meccanismi che lo governano. È un film sulla coscienza e sulla morale dell’uomo che devono costantemente scontrarsi con le imposizioni della società. La Collezionista è un vero film di rivoluzione. Di e non sulla rivoluzione perché è solamente basato sulle idee e su come esse elaborino i pochissimi avvenimenti, spesso apparentemente insignificanti, che si susseguono in una qualsiasi vita umana. Non c’è politica, non c’è letteratura, non c’è pittura, non c’è musica… non c’è nulla di tutto ciò nei dialoghi e nelle riflessioni dei personaggi. C’è soltanto il sé. Il sé come elemento del Tutto, e al contempo come entità a sé stante, prima fra tutte quelle che sentiamo di dover accordare. Non c’è storia. La storia è la storia del sé dei personaggi. In particolare di uno, Adrien, un giovane e aitante commerciante d’arte a tempo perso che si ritrova a condividere un mese delle vacanze estive in una villa nel sud della Francia assieme a un caro amico e a una ragazzina, re-interpretazione anti edipica di Lolita, che interpreterà il ruolo di scombussolatrice degli stati dell’animo. Stati dell’animo, equilibrio interiore che è “punto di intenzione” di Adrien nel momento in cui mette piede nella villa di campagna. Abituato a far vita notturna e sregolata coglie l’occasione nella casa in riva al mare per dedicarsi alla coltivazione e alla cura, quasi una purificazione, del sé che parte innanzitutto dalla riscoperta per la Natura e per i ritmi naturali dell’uomo. Qui vi è la dimostrazione dell’importanza della simbiosi dell’uomo con il cosciente fluire della natura, ma al contempo è evidenziata la fondamentale rilevanza dell’esperire umano. Per poter apprezzare appieno ciò che finora è sempre stato naturalmente sotto i nostri occhi, è necessario aver artificiosamente occultato quella parte della nostra vita. È necessario aver sperimentato ed esaurito l’altra faccia della medaglia. Nel far ciò si va a creare un dittico d’esperienze che deve obbligatoriamente, prima o dopo, sfociare in una fusione delle due partorendo così una nuova visione del mondo. Per Adrien questa visione è la visione [non dichiarata, ma evidente] proposta da filosofi del pensiero quale è l’indiano Jiddu Krishnamurti. La visione, non solo della natura, ma di tutto ciò che ci circonda è per lui esente da qualsiasi tipo di memoria e di pregiudizio derivante da essa. Ogni ricordo modifica l’approccio puro e autentico che si può avere per un qualsiasi elemento di ciò che esiste.
Adrien, acculturato, filosofo nei fatti nonché esperto d’arte orientale s’inserisce perfettamente in questa linea di ripudio della comodità del basarsi su esperienze passate che vanno obbligatoriamente a precludere una visione integra e intera di quella che proprio Krishnamurti chiamava Verità, ovvero l’essenza di ogni cosa.E così, il nostro Adrien dai buoni propositi, s’avvia alla sua personale temporanea apostasi societaria, al suo isolamento eremitico.Ecco però che in brevissimo tempo si manifestano le debolezze dell’uomo, anzi, della mente dell’uomo, onnivora di spiegazioni e di motivazioni per ogni azione che viene commessa. E così, pensiero su pensiero, l’uomo casca nella curiosità e nell’allontanamento che essa provoca dalla Verità krishnamurtiana. Ogni parola e ogni pensiero fatto crea dubbi, fratture, cesure con ciò che conosciamo, e se questo può sembrare un bene in base agl’ideali illuministici dei quali ancora noi oggi siamo figli, tutto ciò porta ad osservare ogni cosa per come la vogliamo osservare noi e non per come è nel suo essere.Adrien sa bene tutto ciò e cerca di tenersi alla larga dalle tentazioni della materia, della carne e si issa sulla colonna dello stilita, dell’eremita che vive in cima alla colonna che lo salva dal peccato. Luis Buñuel ne seppe rappresentare a suo modo uno nel mediometraggio : Simon Del Deserto del 1965.Ma Adrien non è un anacoreta e ben presto scenderà dal suo rifugio per tornare ad insinuarsi nella vita della comunità che si è formata nella villa/monastero.È qui che entra in gioco la bella, ma ancor più che bella, sensuale e disponibile, Haydée. È lei il pomo della discordia fra i due protagonisti, ma ancor prima all’interno dei singoli protagonisti.La visione evidentemente misogina sulla quale basa l’esperienza Rohmer [proprio come Buñuel] è nemmeno troppo velatamente sviluppata in due direzioni. Da una parte abbiamo la donna come femmina peccatrice. È lei la collezionista di uomini, quella priva di moralità [ecco cosa condanna maggiormente Rohmer!] che accumula uomini su uomini senza avere la possibilità intellettuale di farne una selezione. Al contempo è lei che scuote l’animo dell’uomo che tenderà ad ella per completarsi, per unirsi a ciò che lo renderebbe uomo completo, oltreuomo nietzschiano o androgina creatura mitologica per Gustave Moreau. L’unione intima è però impossibile e, in fondo in fondo, data l’impossibilità oggettiva di attuare i principi krishnamurtiani nella vita quotidiana, approvata e condivisa da Rohmer stesso. L’amore per la Passione, malgrado risulti come un semplice passatempo, è costante nel film e nella vita dell’uomo. E l’amore per la donna non deve essere escluso.
Certo è che per il regista anche se l’uomo non è moralmente corretto, sa tentare di esserlo, sa mettersi alla ricerca della retta morale, mentre la donna no. Ecco dunque giustificato il feticismo di fondo che permea tutta l’opera, proprio come Buñuel sa fare in Viridiana o in Bella Di Giorno, anzi forse ancor di più.
L’adorazione per la donna però non deve esclusivamente essere vista come materiale. Come brillantemente [e molto direttamente] evidenziato nel terzo prologo del film l’uomo, inteso come essere umano, tende sempre ed esclusivamente a ciò che egli reputa “bello”. È un bello soggettivo, non un canone classico universalmente valido, eppure pur essendo soggettivo è un parametro al quale ognuno di noi deve sottostare. Fra un/a ragazzo/a bello/a e uno/a brutto/a, entrambi sconosciuti, al quale dobbiamo domandare un’informazione, verso quale dei/lle due saremmo tentati di avviarci? E così Adrien/Rohmer è forzatamente obbligato ad approcciarsi alla bella e disponibile Haydée. Sorprendentemente [ma solo a una visione superficiale] ciò che viene a mancare è il contatto fisico tra i due. L’estetica dunque perde la sua importanza? Come per tutte le altre ambivalenze che caratterizzano il pensiero qui espresso, si e no. Ciò che scuote l’animo dell’uomo è il pensiero di dover raggiungere una donna, non di raggiungerla. Come nelle Notti Bianche di Dostoevskij e nella Prospettiva Nevskij di Gogol è l’idealizzazione ciò che sprona l’uomo ad agire, ciò che stimola la riflessione sul e del sé. Afferrare l’obiettivo che come un fazzoletto viene sventolato davanti ai nostri occhi significherebbe interrompere immediatamente la ragione d’esistere in quella situazione, significherebbe troncare la situazione. Per Rohmer non è soltanto una questione d’idealizzazione, ma di vera e propria sfida tesa alla maturazione del sé tramite l’esperienza. La donna/oggetto si rivelerà quindi dea/oggetto, detentrice dei piaceri e della dannazione dell’uomo. L’indispensabilità del non-contatto fisico tra individui è una condizione necessaria per non far crollare il castello di carte sul quale temporaneamente il sé appoggia. Lungi dal vedere la Verità per ciò che è, la moralità si fonda qui sull’esperienza. Dunque, è l’esperienza o l’ascesi a costituire la via per la salvezza morale dell’uomo? Dubbio amletico ed annoso che affonda le sue radici nella filosofia greca che è stata sostanziosamente ripresa e [fortunatamente] trascritta dai monaci medievali attraverso i quali spunteranno fuori personaggi fondamentali per queste questioni filosofico-morali come Tommaso d’Aquino e Pietro Abelardo. Eppure Rohmer non sembra volersi discostare troppo dal rifiuto/unione cosmico di Krishnamurti, tant’è che è lo stesso Adrien ad affermare “io non cerco niente”, a rimarcare quanto ogni azione compiuta sia un passo di allontanamento dalla Verità. Ogni azione dell’uomo è il frutto d’un pensiero d’arroganza che andrà a modificare ciò che era fino a quel momento. La non ricerca di qualcosa non è però finalizzata all’esclusione dal mondo, piuttosto tende all’intima unione con esso. Non “agire per ottenere”, ma “ottenere e in base a ciò agire”. Non cercare arrogantemente qualcosa, ma confrontarsi con ciò che a noi viene. “L’importante non è pensare, è partecipare” intimamente, ribadisce Adrien. Purtroppo le debolezze dell’uomo s’incastrano nelle fessure della coscienza e nel momento della presa di coscienza d’essere parte d’un teatrino societario, nel bene e nel male, si rischia di perdere la ragione. Senza contare che se dopo aver compreso ciò si è anche in grado di vedere il proprio ruolo come di defilata comparsa rispetto a chi davvero è protagonista societario, le probabilità d’impazzire aumentano a dismisura. Anche attraverso a ciò passa Adrien, nel suo non agire. Forse il dialogo più bello è in scena proprio quando il protagonista si confronta con il suo acquirente collezionista d’arte e dimostra la sua teoria del “ci vuole più coraggio a non lavorare che a lavorare” in virtù del fatto che il lavoro è qualcosa che non siamo in grado di mettere in discussione nella nostra vita. Per tutti noi è normale trovare un lavoro, ma questo cosa comporta? Comporta l’inserimento meccanico in un processo societario così come inscenò Lang nel suo celebre Metropolis del ’27. Una lunga catena di montaggio per la produzione di beni di assoluta non prima necessità, beni superflui che crediamo di volere e di necessitare. Chiamarsi fuori da tutto ciò è per Rohmer, coraggioso. Non agire, per agire contro una società del consumo e dello sfruttamento dell’uomo, che si ritrova così senza possibilità di dedicarsi al sé e a ciò che lo circonda, che è sempre parte del sé, e viceversa. E tutto ciò lo si può desumere osservando un film nel quale nulla succede, oltretutto girato con una tecnica registica quasi improvvisata, in pieno stile nouvellevaguiano. Molte sono le scene in controluce, molte sono le inquadrature decentrate e il montaggio non segue minimamente quanto imposto dal découpage del cinema classico hollywoodiano. La suddivisione in capitoli del film è totalmente arbitraria e spiazzante. Il finale così improvvisamente troncato si conferma una delle migliori trovate dell’intera nouvelle vague, e ripropone quanto lo stesso Rohmer aveva già proposto nel primo dei racconti morali, il cortometraggio La Boulangère De Monceau. L’interpretazione degli attori è perfetta per l’occasione ma tutt’altro che accademica. L’immagine perde ogni sua importanza in favore della parola, grazie a una sceneggiatura tra le più forti che si siano mai viste al cinema, assieme a quelle di Bergman.La Collezionista è un film adatto a pochi, non perché sia estremamente lento o pesante ma perché rischia di non essere compreso nella sua essenza. Per apprezzare questo film è necessario entrare in profonda empatia con quanto rappresentato, altrimenti si assisterà a un’inutile susseguirsi di situazioni insignificanti.
Copyright Danilo Cardone in cinefobie novembre 2011
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