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moralia in lob
A chi appartengono le parole? Alla mano che le scrive sulla carta – fitte tracce di inchiostro, labili cenni di matita, calligrafie gotiche e moderne, segni incisi o via trasvolanti –: alla mano che le ritocca, corregge, perfeziona, di nuovo cancella, di nuovo corregge, fino a quando abbiano assunto l’apparenza del marmo? Oppure la bocca che le dice – getto torrenziale, impeto furioso e senza freni, rivolo squisito che decora e rallenta la conversazione? Quel’è il loro vero luogo? Dove debbono vivere e morire? Dove fioriscono? Dove trionfano?
La nostra vita ripete le tappe della storia del mondo. Nelle civiltà più antiche, le parole sacre evitavano le pietre e i fogli: venivano rivelate e pochi, i quali, a loro volta, le confidavano a pochi successori designati; e, in questa trasmissione orale, continuamente riprese, commentate, variate e perciò molto più fedeli a se stesse di quelle trascritte, esse non perdevano nulla della propria suggestione simbolica. Poi si affacciò la parola scritta: dapprima impiegata per i più modesti usi quotidiani – scribi che segnavano le entrate dei templi, il numero dei buoi e delle pecore, le razioni degli artigiani, il numero dei guerrieri che proteggevano le coste da ignoti nemici. Così la parola si fece carne e si attendò fra noi: non nel cuore degli uomini, ma sui muri, sui papiri, sulle tavolette di creta, sui cocci, nei libri, nei fogli che riempiono inutilmente i nostri tavoli, nei giornali, nei volti, che incominciarono ad assomigliare alle lettere dell’alfabeto. Alla parola parlata rimasero i discorsi dei demagoghi, le conversazioni attorno al tè o dopo cena, le chiacchiere dei pazienti sul lettino dello psicanalista; e i suoni silenziosi e sussurranti che a bocca chiusa si inseguono nei sogni.
Così accade anche nella nostra vita. Quanto abbiamo vent’anni, discorriamo di noi stessi e dei nostri amici, di Dio e degli dèi, di libri, di viaggi, della vita molteplice dei sentimenti: creiamo cosmogonie, teogonie, filosofie, psicologie, rovistiamo, trivelliamo, indaghiamo su qualsiasi cosa, fino a quando essa ci mostri, sfinita e quasi esausta, tutte le possibilità che contiene. […]
Giunti ad un certo punto della vita, incominciamo a tacere. Capita sempre più spesso che la conversazione, anche con gli amici più cari, proceda faticosamente: si inceppa, si trascina e cade a terra. Il cervello sembra meno pronto e veloce, la lingua affiochita: una specie di sopore e di intontimento o una vaga debolezza ci avvolgono come un lenzuolo funereo. Oppure ci rifugiamo nell’aneddoto, nella chiacchiera che sfiora intenzionalmente la banalità, e il nostro volto un tempo mobile adotta la maschera rassicurante del luogo comune. Il nostro interesse si volge sempre meno alle idee generali, ai grandi problemi. Ci piace trarci da parte, lasciarci tempo, divenire silenziosi, divenire lenti. Come è possibile affidare alla lingua parlata queste delicate tele di ragno?
Il tè del Cappellaio matto