il tempio delle due divinità – La felicità di Dioniso, quella di Apollo

Relazione presentata al Convegno su “Felicità: quale?” tenutosi a Viareggio nel Febbraio 1997.
di Riccardo Zerbetto

Il senso del mio intervento è già contenuto nel titolo.
Felicità diverse, antitetiche, inconciliabili o destinate in qualche modo a coesistere in una possibile dimensione unificante, in un unico Olimpo?
Già l’idea stessa di Olimpo non suona così familiare a Dioniso, lo “straniero” tra gli dei, l’unico nato da donna, seppur partorito da un maschio, il padre Zeus. La madre Semele (una delle donne Madri, oltre a Demetra che una successiva tradizione addita) volle vedere il dio non sotto lo sembianze di uomo, come le era stato concesso di avvicinare Zeus, ma nel suo stesso fulgore divino.
Ma chi può vedere dio e non morirne? Era, gelosa, la accontentò. Semele assistette alla epifania del dio e ne fu bruciata. Morendo concepì e dette alla luce il figlio che Zeus sottrasse all’ira della consorte ed affidò, dopo averlo cucito nella sua coscia per completarne la gestazione, ad un Sileno e a quattro nutrici tra cui la madre stessa che Dioniso riportò alla vita. Semele chiamata anche Tiona, l’invasata, colei che è rapita dal sacro furore, prima fra tutte le menadi (da cui uno dei tanti epiteti di Bacco come mainomenos, il pazzo), le baccanti che nelle notti consacrate al dio lasciano le case ed i figli e si uniscono in riti cui i maschi non hanno accesso. Riti di danze sfrenate, di ritmi incalzanti, di ebbrezza facilitata da sostanze inebrianti, spesso di sacrifici cruenti.
Dio ammesso solo tardivamente tra gli olimpi e solo fugacemente nominato da Omero. Dio che muore. Unico mortale quindi tra gli dei e pur dio esso stesso e più che semidio o eroe mitico. Dio che guadagnò uno spazio progressivo nel tessuto sociale dei greci, specie nella fase pù matura e splendente della cultura attica, se è vero che da Dioniso si faceva risalire la nascita della tragedia stessa.
Lo stesso dio sarebbe apparso in sogno a Eschilo chiamandolo ad essere suo interprete. Sappiamo infatti che attorno alla tragedia si raccoglieva il più grande accadimento artistico-culturale della intera polis che finanziava la stessa produzione dei cicli tragici e consentiva la coesistenza di una società nella società – la confraternita appunto dei cultori del dio e del rito tragico – in perenne rapporto dialettico con l’ordine costituito. Valga per tutti l’esempio di Antigone che infrange la legge stabilita dal tiranno di Tebe e seppellisce il fratello, privilegiando una legge non sancita dal potere politico.
Nella struttura del tragico, pur senza addentrarci in temi di fine filologia nei quali mi muoverei in un territorio che non mi compete, può ravvisarsi tuttavia un elemento “forte”, l’emergere di un personaggio emblematico, un eroe (tragico appunto) da un coro, da un “si dice” per usare un pregnante riferimento heideggeriano.
La dialettica tra una coscienza individuale e un pensare collettivo. E tragica è appunto la nascita dell’uomo moderno che acquista coscienza del proprio destino e si pone di fronte ad esso come soggetto, come autore di scelte, ben diverso quindi dall’eroe arcaico, omerico, che non agisce tanto in quanto soggetto ma come “agito” dal volere altro, di quegli dei olimpi che giocano con le vite dei mortali tessendo le loro trame quasi per gioco. Sono infatti gli rean zoontes, quelli della “vita che scorre”, che pur nelle diatribe degli intrichi e delle rivalità si ritrovano comunque a bearsi di ambrosia nel perenne banchetto di una vita che non conosce la fine.
Questo elemento di contrasto, di diatriba, di travaglio (parto, fuoriuscita da un dilemma inestricabile attraverso un “viaggio” un percorso di morte-rinascita) rimanda alle origini della tragedia stessa, alle dionisiache appunto, ai drammi satireschi che ne erano gli antecedenti. Riti primitivi di una popolazione dedita alla agricoltura e alla pastorizia prima dell’inurbamento nella polis. Il coro, composto da satiri muniti di flauti e tamburelli, con attacchi “satireschi” appunto, grazie al camuffamento di pelli e maschere, potevano concedersi lazzi mordaci ed irriverenze che l’ordine sociale rigido e rigorosamente stratificato di una cultura primitiva non consentivano nel dispiegarsi del quotidiano.
Le tensioni sociali, le frustrazioni, le inibizioni si accumulavano quindi per poi esplodere nella catarsi liberatoria della festa orgiastica “lubrificata“ da sostanze inebrianti e movimenti ritmati e convulsi che consentivano l’emergere di una diversa condizione di coscienza. Estatica appunto, collettiva, che fluidificava in un torrente che si ingrossava sino a divenire incontenibile libido orale e forse anche sessuale. In “vino veritas” ma anche licenzia sexualis, che travolgeva, “semel in anno licet insanire”, regole, gerarchie, inibizioni.
La pantera e la leonessa, aggiogate al carro di Dioniso, non esprimevano ancora il diritto alla espressione anche di aspetti perversi della sessualità e ritenuti inferiori nella cultura dominante? L’allegoria sembra rimandare infatti ad Adone e ad Atalanta. Simbolo il primo della seduzione effemminata, desunta dal fatto che la pantera, unico tra i predatori, gode di un profumo con il quale attrae le sue prede ed i secondo della fierezza femminile che rifiuta il matrimonio.
Dioniso, esso stesso, come ricorda R. Graves, denotava tratti effemminati a seguito dell’educazione ricevuta dalle nutrici che, per sottrarlo alla persecuzione di Era, lo avevano custodito “nell’ombra”, analogamente ad una tradizione di origine cretese di mantenere i ragazzi negli “alloggi delle donne” sino all’adolescenza.
“Lo straniero dalle forme femminili che porta una nuova malattia alle donne e oltraggia i matrimoni” viene rievocato anche da Euripide che nelle Baccanti ci lascia una testimonianza in epoca classica dei riti ormai perduti della Grecia arcaica.
Questo dio polimorfo, di cui K. Kereny riporta più di venti diversi epiteti, è tuttavia colui di cui un epigramma testimonia “chi a te non rivolge la mente non può dolcemente cantare”.
Mirabilmente, nella sua introduzione alle Dionisiache di Nono di Panopoli, poema epico del V secolo dopo Cristo, Dario del Corno sintetizza come, attraverso la sua opera il poeta tardo-alessandrino ha inteso “esprimere una verità dura e consolante al tempo stesso: che nella trasformazione consiste la vita e che il mutamento è la necessaria premessa di ogni inizio. L’elogio di Dioniso e la palingenesi garantita dal suo avvento si identificano con la natura stessa del dio, con la legge dell’universo, con il mito della metamorfosi, e con il carattere formale del poema”.
“Invoco Dioniso altisonante ed urlante – cita ancora un inno orfico – primogenito, dalla duplice natura, tre volte generato, bacchico sovrano, selvaggio, misterioso, arcano, che ha due corna e due forme, coronato di pampini, con la fronte di toro, bellicoso, evio ed augusto, che di carni crude si nutre, cultore delle vigne, vestito di fronde”
Se quest’orgia liberatoria, nella quale nulla appare vietato e sottoposto alla dura necessità del limite, evoca senza dubbio un’immagine di felicità è pur vero che la stessa rimanda al pericolo di una drammatica inconsistenza e non durevolezza.
“Il sonno della ragione genera mostri”. All’acmé stessa dell’esperienza orgiastico-liberatoria emerge il panico per il sovvertimento di quell’ordine che pure si riferiva ad un volere degli dei, ad un ordine solare e giusto che condanna e spesso senza appelli ogni forma di infrazione, quella dimensione di definizione-perfezione apollinea in cui non ci sono mezze misure o ambiguità, in cui una luce diretta come la traiettoria di una freccia scagliata dalla faretra del dio bellissimo e crudele, divide con spietata chiarezza la luce dalla tenebra, il giusto dall’ingiusto, il consentito dal proibito.
Diametralmente opposta si affaccia allora la promessa di un’altra felicità in cui emergono elementi antitetici alla prima. L ’ordine, esso stesso, consente infatti un sua felicità, una sua armonia, una omeostasi in cui le regole sono chiare e non c’è spazio ne per la il dubbio e l’ambiguità.
“Vieni o beato – recita un inno orfico che tra i tanti attributi cita – donatore di felicità, delfico indovino, selvaggio, fulgido nume, amabile, giovine glorioso, di lira suonatore, guida dei cori, arciere lungimirante, che respingi lontano, che tutto il mondo miri con l’occhio scintillante, nume onnifiorente” e ancora “ tu distingui le stirpi dei viventi, con l’armonia misuri il destino comune agli uomini tutti e l’inverno e l’estate mescolando con ritmo eguale, alla corda più grave (della lira) l’inverno, alla più acuta l’estate risvegliando e nel dorico modo il fiore amabile di primavera”
Nei suoi Iperborei, dove Apollo si ritira nei mesi invernali, abitano uomini felici e giusti che con canti armoniosi venerano il dio estasiandosi della sua bellezza (da G. Colli e D. Cinti). Plausibile il collegamento con l’idea di felicità, di paradiso che ne è mutuata nella tradizione alessandrina, plotinico-spiritualista e quindi anche cristiana tutta improntata ad una dimensione di luminosa e beatifica perfezione totalmente disancorata dagli aspetti duri e terrifici della realtà terrena.
Dante non invoca forse Apollo all’inizio del Paradiso “O buon Apollo a l’ultimo lavoro fammi del tuo valor si fatto vaso come dimandi a dar l’amato alloro”.
Ma l’invocazione non riguarda solo il dio della poesia. Riguarda anche il dio solare “quando Beatrice vidi a riguardar nel sole, aquila si non s’affissa unquanco”. Questo guardare nel sole dà anche a Dante l’ardire di immergervisi.
Ma quella assoluta perfezione ed armonia, che pur vagheggiamo quando siamo turbati dal caos vorticoso di una incontrollabile panta rei e che ci spinge a desiderare un riposo eterno una contemplazione beatifica e non più soggetta a mutamenti-destabilizzazioni-minacce di un continuo ed imprevedibile divenire … è una dimensione dalla quale nei fatti paradossalmente fuggiamo.
Come Dafne, figlia di Gea e inseguita da Apollo grida disperata per non esserne catturata e sprofonda nella viscere della Madre-salvatrice Gea. Gea, la madre, cui Apollo si era sostituito nel luogo sacro di Delfi uccidendone il figlio-guardiano Pitone. Felicità maschile quindi, di una giustizia solare e rettilinea, di un’armonia all’insegna di una perfezione che attira ma anche sgomenta il mortale così dolorosamente assuefatto alla propria condizione di miserevole limitatezza.
E qui irrompe Dioniso, eterna divinità polare. Finita la stagione del sole, Il sacro ad Apollo per eccellenza, Delfi, diventa sacro a Dioniso. Lo stesso Parnaso, che gli sta alle spalle, si spopola di Muse e si popola di ninfe silvestri, più compiacenti e complici al gioco spietato ed innocente della natura, dove, al prevalere del giudizio e della mente, si cede all’indifferenziato, a Pan, al dio di tutti gli amori omo-auto-etrosessuali in una giocosa girandola di possibilità godute nella immediatezza di una vegetativo vitalismo, senza il tarlo della coscienza etica ed ordinatrice.
Irrompe il dio della ambiguità, della penombra, del giorno-notte, del maschio-femmina, del dio-uomo, della estasi-mortalità, dell’illimite-limite, del dio che unisce in sé tutti i gli opposti ed è fonte esso stesso di creatività, musica, arte e pensiero.
L’orgia è felicità dei mortali – come mortale è Dioniso – per eccellenza. Estremo apice del tutto ciò che possiamo concederci, un cibarsi di “carni infinite” per usare una espressione di Omero, di vino senza limite per appartenere “senza misura” al dio che supera tutti i confini e le differenziazioni. Nel quale il re e lo schiavo si riconoscono parte di un tutto, in cui l’ordine si sovverte in un caos distruttivo e rigeneratore, in cui si smazzano le carte per inaugurare un nuovo gioco, un nuovo ordine.
Inevitabile l’accostamento di Dioniso a Shiva, come giustamente Alain Danielou ci ha propone.
Non sarà che questo dio, contrariamente (o parallelamente) ad una tradizione che lo fa approdare in Grecia dall’Egitto, come Apollo stesso da Delo, dalle isole del sud, dove si può vedere imparentato ad Osiride (anch’esso dio che muore, divorato dal fratello Seth, il Coccodrillo, il dio invidioso e delle tenebre, e le cui membra vengono ricomposte da Iside) secondo la tradizione della “Atene nera”, quella che mutua l’essenza della sua cultura dalla grande civiltà che la precede sulle rive dei grandi fiumi (Egitto e Mesopotamia), non giunga invece da Nord? Da quella Tracia, dove i proto-baccanali subivano l’influenza dei riti ordalico-orgiastici (anche lì una sostanza inebriante, forse l’edera oltre che la birra), in cui il rito catartico prevedeva la caccia notturna ed il sacrificio rituale esorcistico-propiziatorio di un animale sacro, il cervo-dioniso, ma forse anche di un capro espiatorio-uomo ?
Tale tradizione, ci ricorda Frazer, permaneva nella Grecia anche nel periodo classico; l’uomo predestinato al sacrificio veniva nutrito a spese della città per poi venire immolato per espiare le colpe del popolo e attirare il favore degli dei. Impossibile non ravvedere in tale tradizione una anticipazione dello stesso schema dionisiaco-orfico, della vittima sacrificale che si dà in pasto e che viene sbranato per “portare tutti a se” nella sua operazione di discesa nella morte ed ascensione al cielo, figura anticipatrice del Cristo e del suo rito alchemico.
Lo stesso uso di una sostanza inebriante, il soma nella tradizione vedica Veda o l’haoma nell’Avesta dei Parsi, e il sacrificio consentono l’irruzione di quell’accadimento creativo-distruttivo in cui si rivela l’epifania di Shiva (De Felice). Non perché il dio ne abbia bisogno; “il Terribile” può starsene immerso nel lago, come dice la leggenda, assorto in una meditazione pre-oggettuale senza bisogno di creare il mondo. Daksa, il sacerdote, il mastro del rito perfetto ed immutabile lo anticipa nella creazione delle cose e dei mondi. Con una perfezione tale da attrarre nostalgicamente la figlia Sati che pure aveva lasciato il padre per unirsi a Schiva. Errore fatale che comporterà la spietate distruzione di tutta la perfezione del cerimoniale del Sacerdote, quando il rito soffoca la vita, come magistralmente R. Calasso rievoca nel suo Ka.
Dove collocarci quindi nella nostra impenitente sete di felicità? dalla parte di un Apollo, troppo solare, perfetto per essere frequentato senza morirne? o dalla parte di Dioniso, così sfrenato e senza limiti da essere lui stesso vittima della propria natura, per quanto divina?
Raccontano i frammenti orfici che a lui Zeus consegnò le chiavi del regno, (“E Dioniso è l’ultimo re degli dei, investito da Zeus; il padre lo pone sul trono regale, gli dà lo scettro e lo fa re di tutti gli dei del mondo” frammento 182) dopo averle ereditate, da Cronos, Urano, Caos e Fanes, l’”uovo senza seme”.
Zeus-Dios. Singolare questa parola irregolare, composita, nella quale il genitivo rimanda ad una radice “altra”. Come Zeus, infatti, contiene la radice di zeomai-vivere, così Dios contiene la radice dio che appunto compare anche in Dio-niso dove la seconda desinenza viene diversamente interpretata come figlio, di dio appunto, o di Nisa, montagna ai confini settentrionali della Grecia da dove appunto il culto del dio sembra essere derivato. A chi se non a colui che più di ogni altro ne esprime l’inesausta vitalità, il giocatore a tutti i tavoli verdi dell’esistenza, al contaminatore che esplora tutte le possibili combinazioni, mutazioni, che intreccia tutte le opposte polarità?
Non a caso, sempre nella tradizione orfica si giunge ad affermare come “Tutto fece Zeus padre, ma Bacco lo portò a compimento” (frammento 191).
Avvenne qualcosa tuttavia. Dioniso giocava alla trottola nel paese dei Cureti. Il girare vorticoso di questo gioco lo aveva probabilmente rapito nella dimensione estatica che è la sua per eccellenza, fuori dal tempo e dalle ineluttabili leggi di Necessità cui gli stessi dei si assoggettano, dal “principio di realtà”, come diremmo noi in termini freudiani.
I Titani, che il nuovo ordine instaurato da Giove aveva relativamente liberato dopo averli imprigionati insieme a Cronos, si sciolgono dalle catene. Queste forze primordiali irrompono ancora incontrollate sul mondo e fanno a pezzi Dioniso. Solo l’intervento di Apollo (il taumaturgo per eccellenza, e padre di Asclepio-Esculapio) e la sua paziente raccolta delle sparse membra ne consentirà il ritorno alla vita (frammento 187).
Tale polarità, rimanda inoltre a quella fondamentale di pluralità-unicità. Come si legge infatti nel frammento185 “Efesto fece uno specchio a Dioniso e il dio, guardandovi dentro e contemplando la propria immagine, passò a creare la pluralità”. da cui (frammento184) “Dioniso infatti, posta l’immagine nello specchio, a quella tenne dietro, e così fu frantumato nel tutto. Ma Apollo lo riunisce e lo riconduce, nella sua qualità di dio purificatore e vero salvatore di Dioniso, e per questo viene chiamato Dionisodote”.
Al di là di una impercorribile, e neppure auspicabile, contrapposizione, sta forse nell’alternanza, nella oscillazione, nella pulsazione tra queste due dimensioni del vivere, la possibilità esistentiva che ci viene offerta dall’essere “gettati” nel mondo.
Chissà che il vecchio Zeus, quel genio di ordine e sregolatezza, quella divina capacità di tenere insieme giustizia e intemperanza, onore e infedeltà, benevolenza e spietatezza, monarchia e pluralismo, giocosità e corrucciata tonante serietà non meriti più rispetto ed attenzione di quello che gli è stato riconosciuto nel corso degli ultimi due millenni?
Sempre ispirandoci alla visione sapienziale del pensiero mistico-filosogico greco, in particolare secondo la tradizione orfica che di tale pensiero rappresenta forse l’elaborazione più penetrante, Zeus rappresenta per antonomasia la sintesi degli opposti “di tutte le cose racchiuse nel suo concavo ventre la forma corporea e mischiò alle sue membra la potenza e il vigore del dio; per questo di nuovo tutte le cose furono foggiate entro Zeus” (frammento 150) e ancora (da stralci del 151) “Zeus fu il primo, Zeus dal fulmine splendente l’ultimo .. Zeus fu maschio, Zeus fu immortale fanciulla; Zeus è il sostegno della terra e del cielo stellato; … unica forma regale, nella quale tutte queste cose si volgono; fuoco e acqua, terra ed etere, notte e giorno .. tutte queste cose sono nel grande corpo di Zeus”.
Una metafora del sé superiore ad ogni altra, di cui personalmente sia a conoscenza. Dico questo ponendomi consapevolmente in antitesi alla tesi di Jung quando sostiene nel capitolo quarto di Aion: ricerche sul simbolismo del Sé” la “posizione psicologica” per la quale “Cristo rappresenta in concreto l’archetipo del Sé”.
In tema di archetipi, il confine tra rappresentazioni mitiche e vissuti psicologici si fa inesistente dal momento che, sempre citando Jung “non è possibile distinguere nella pratica i simboli spontanei del Sé (della totalità) dall’immagine di Dio”.
Se tuttavia “nella figura di Cristo riconosciamo un equivalente del fenomeno psichico del Sé, l’Anticristo corrisponderà all’Ombra del Sé, ovvero alla metà oscura della totalità umana, che non dobbiamo giudicare troppo ottimisticamente”.
Mentre però “luce ed ombra formano nel Sé empirico un’unità paradossale, nella visione cristiana, invece, l’archetipo è irrimediabilmente scisso in due metà così inconciliabili da sfociare in un dualismo metafisico: nella separazione ultima tra regno dei cieli e mondo infuocato della dannazione. – ammettendo subito dopo come – per chiunque nutra un atteggiamento positivo nei confronti del cristianesimo, la questione dell’Anticristo rappresenta un grave problema”.
In realtà, mentre il diavolo nell’antico testamento aveva “trattato familiarmente con Yahvèh” (vedi il libro di Giobbe) “la figura dogmatica di Cristo è così sublime, così pura che ogni altra cosa risulta da essa offuscata. Di fatto essa è così unilateralmente perfetta da esigere formalmente, per restare in equilibrio, un complemento psichico” e, in ultima analisi una “crocefissione dell’Io, la sua tormentosa sospensione tra due inconciliabili opposti”.
Una simile conclusione appare, ad una riflessione non animata da totale fideismo, sicuramente discutibile seppure non possiamo sottovalutare il peso delle tragedie collegate al secondo conflitto mondiale nel periodo in cui Jung elaborava tale concezione. Accettiamo la sua acuta osservazione quando conclude asserisce di non voler discutere il problema se questa acutizzazione degli opposti, che aumenta la sofferenza, non corrisponda magari ad un “grado superiore di verità”.
Stupisce una simile conclusione specie in un profondo conoscitore delle “religioni filosofiche dell’India e della Cina” quando riconosce che tale incompatibilità “manca clamorosamente” in riferimento, in particolare, alla polarità non contrappositiva tra il principio dello yang e dello yin nella concezione unificante del Tao.
Anche al di là di una imago dei che consenta una soddisfacente conjunctio oppositorum, sempre parafrasando un linguaggio caro a Jung, merita ricordare la penetrante intuizione colta da Nietzsche nel suo testo mirabile “La nascita della tragedia” che già nel suo esordio introduce la tesi secondo cui “Avremo ottenuto molto per la scienza estetica quando saremo giunti non solo alla comprension logica, ma anche all’immediata sicurezza dell’intuizione del fatto che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco: in modo simile a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta ed una riconciliazione che si manifesta solo periodicamente”.
Le due divinità immanenti, stando alla concezione di Lucrezio del pari riportata dal filosofo secondo cui “nel sogno apparvero per la prima volta alle anime degli uomini le splendide figure degli dei”, Apollo rappresenterebbe quella “limitazione piena di misura, quella libertà dalle più selvagge emozioni, quella quiete piena di saggezza” contraddistinto da uno sguardo “solare, conforme alla sua origine, anche quando si adira e guarda disgustato” . A livello archetipico – usando retrospettivamente questo concetto junghiano – rappresenta il principium individuazionis, quello che consente cioè la discriminazione del giusto e del vero e quindi la comprensione ed il vaticinio. Al contrario agisce Dioniso il “dio ebbro” o per l’influsso delle bevande alcoliche, cantate da tutti gli uomini e da tutti i popoli primitivi, o per il portentoso avvicinarsi della primavera, che gioiosamente pervade tutta la natura, si risvegliano quegli impulsi dionisiaci nella cui accentuazione svanisce la soggettività , in un totale oblio di sé” e ancora “Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la “moda sfacciata” hanno posto fra gli uomini…. Ora, nel vangelo dell’universale armonia, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando”.
Ma ecco affacciarsi il volto irsuto e talvolta mostruoso, crudele del satiro. Come ricorda infatti Nietzsche “Quasi dappertutto il nucleo di queste feste (che trovano, aggiunge, elementi di analogia anche in altre culture) consisteva in una esuberante indisciplinatezza sessuale, le cui onde travolgevano ogni senso della famiglia e dei suoi venerandi statuti; qui venivano scatenate proprio le bestie più selvagge della natura, fino ad una atroce miscela di voluttà e crudeltà che mi è sempre apparso come il vero “filtro delle streghe” (esula da questo contesto sviluppare questo tema che ravvede nei riti bacchico-dionisiaci gli antecedenti del sabba e della demonizzazione del rito dionisiaco non solo nella cultura cristiana ma anche greco-romana post classica)”.
Al di là dello sviluppo nietzschiano che vede nella polarità in oggetto il rispecchiarsi della superiorità della musica dionisiaca, a partire dal coro tragico, rispetto alle arti figurative ispirate ad Apollo, il “dio plastico” resta la lapidarietà e pregnanza della sua conclusione secondo cui “la riconciliazione (tra i due principi) è il momento più importante nella storia del culto greco: ovunque si guardi, sono visibili gli sconvolgimenti originati da questo evento”.
Tale sintesi, come tutte quelle di vasta portata, non avvenne senza un travaglio proporzionato alla distanza tra i due “principi” in gioco. Ce lo ricorda, con penetrante metafora, il mito di Marsia, doppione mitologico di Pan, che vede il satiro scorticato da Apollo dopo averlo sfidato nell’abilità musicale. Tra le tante “opposizioni” evocate dal mito (greci/barbari, abitanti delle città/pastori, sudditi di monarchie arcaiche/cittadini delle polis), come fa osservare D. Anzieau ne’ L’Io-pelle, c’è quella tra suonatori di strumenti a fiato (flauti e siringhe) e a corda (lira) ed quindi tra seguaci di Dioniso e di Apollo e dei rispettivi riti.
Seppur vittoriosa, la dominante civiltà dei Dori si trovò tuttavia ad integrare la cultura più primitiva e naturalistica. “Apollo non poteva vivere senza Dioniso”, sempre riportando Nietzsche e il ditirambo dionisiaco ebbe quindi la sua rivincita nel dominare le scene della rappresentazione della tragedia.
Ma con la psicopatologia, con la psicoterapia che c’entra tutto questo? Tutto, a mio parere. Anche se esula dalle competenze di questo contributo approfondire gli aspetti patologici che inevitabilmente caratterizzano lo sbilanciamento del sé, allorchè la citata conjunctio oppositorum non trova una sufficiente realizzazione. E’ evidente come una personalità esasperatamente “apollinea” sarà contraddistinta da quelle caratteristiche di perfezionismo, di rigida e potenzialmente spietata idealità che porteranno ad atteggiamenti di intolleranza per ogni aspetto della vita, riscontrabile in sé come negli altri, che non si inscrivano in un’immagine di semidivina solarità.
Sull’opposto versante, il rifiuto del limite, di qualsivoglia norma sociale che si opponga all’esperienza estatico-orgiastica dell’appagamento tutto e subito del desiderio porterà, laddove non temperata dal principio polare, a forme auto-eterodistruttive.
Il perenne conflitto tra queste istanze polari, nell’ambito della nevrosi, trova del resto una puntuale formulazione nella concezione freudiana riferita all’Es e al Super-Io. Non sono forse le alterne vicende di questa lotta a narrare le “vicissitudini” di quella libido che in ultima analisi segna i destino degli umani?
Laddove una soluzione “negoziale” non trova sbocco abbiamo la tragedia, la folle presunzione di una delle “parti” di poter, una volta per tutte, sterminare la parte percepita come nemica e minacciosa.
Nella estrema “negazione” dell’altro, dell’altro-da-sé, del diverso per antonomasia si apre la voragine della spaccatura e della malattia nella sua forma più disperata. Lo splitting della personalità conduce infatti a quella “inconoscibilità” tra le parti del sé così acutamente colta dal neo-mito del dottor Jekhill e del mister Hyde e che, non causalmente, tanto successo ha avuto. Chi infatti non ha sperimentato in se stesso questa negazione di parti del sé come difesa da una tensione dolorosa, da un’opposizione di parti in conflitto spinta talvolta al suo spasimo? Con sofferta consapevolezza si chiede, a conclusione del suo saggio, Nietzsche quanto si debba soffrire per giungere a “sacrificare nel tempio alle due divinità”.
Le scienze psicologiche sono nate ieri, un secolo fa appena. Le domande dell’uomo su come essere felici o per lo meno esser meno infelici, da migliaia di anni. Come non attingere al distillato di tanta ricerca, di tanta esperienza, di tanta validazione?
In fondo, tutta la ricerca, tutta la conoscenza è ricerca del piacere, del come soffrire meno. “Il piacere – per Epicuro – è il piacere della conoscenza. E la conoscenza è la conoscenza del piacere”.
Non è forse nello scambio di conoscenza che noi, qui, stiamo cercando un pizzico di felicità?

Riferimenti bibliografici

Anzieau D., L’Io-pelle, tr. it. Borla, 1985
Burkert W., Mito e rituale in Grecia, tr. it. Oscar Mondadori, 1992
Calasso R, Ka, Adelphi Ed., Milano, 1996
Cinti D., Dizionario Mitologico, Sonzogno, 1989
Colli G., La sapienza greca, Adelphi Ed. Milano, 1977
Daniéluo A. Gods of Love and Ecstasy: the Traditions of Shiva and Dionysus, Inner Traditions, Rochester Vernont, 1992
De Crescenzio L., Ordine e disordine, Mondadori ed. 1996
De Felice P., Poisons sacrés, ivresses divines, M. Albin, 1936
Epicuro, Lettere, Fabbri Ed.,1994
Euripide, Baccanti, tr. it. Garzanti Ed. 1987
Frammenti Orfici (a cura di G. Arrighetti con note di G. Colli), Tea Ed. Milano, 1989
Graves R., I Miti Greci, tr. it. Longanesi, 1063
Hilmann J, Saggio su Pan, tr. it. Adepfi Ed., Milano, 1994
Kerenyi K., Gli dei della Grecia, tr. it. Il Saggiatore, 1962
Inni Orfini, Ed. Asram Vidya, Roma 1991
Jung C.G., Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, tr. it. Boringhieri, 1982
Nietzshe F., La nascita della tragedia, tr. it. Adelphi Ed., Milano, 1994
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, Adelphi Ed., Milano, 1997
Quattrocchi A., Miti riti magie e misteri dei Greci, Vallardi, 1993

Pubblicità
Questa voce è stata pubblicata in antropologia, notes. Contrassegna il permalink.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...