il codice del mito di Andrea Colamedici – Il sogno di Platone e l’incubo dell’Occidente | Mursia Editore
INTRODUZIONE
«La storia della filosofia occidentale non è altro che una serie di note a piè di pagina a Platone». Con queste parole Alfred North Whitehead, filosofo e matematico britannico, intendeva mettere in luce un fatto chiaro a ogni studente di filosofia: da Platone non si può scappare. Non solo non ci sono vie di fuga dalla sterminata bibliografia sull’opera platonica, oramai impossibile da leggere per intero in una vita sola: Platone c’è soprattutto dove non è esplicitata la sua presenza. Nelle riflessioni di filosofia politica, nei manifesti sulla libertà della rete, nelle conversazioni sull’amore, sul senso della vita, su minimi, medi e massimi sistemi, tutto odora di Platone.
Whitehead è stato fin troppo cauto nel definire la portata del filosofo greco: è la storia dell’Occidente a essere una serie di note a piè di pagina a Platone, tanto la nostra mente è stata modellata dalle sue opere. Questo libro intende dunque offrire una ricapitolazione dei modi attraverso cui la sua mitologia ha contribuito a creare quello che oggi definiamo Occidente e coscienza. I suoi limiti e i suoi slanci hanno definito i nostri limiti e i nostri slanci, in una promessa di filosofia non ancora mantenuta. Non a caso uno dei più importanti platonisti italiani del Novecento, Giovanni Reale, arriva a considerare Platone un Profeta di Cristo, l’altro grande vasaio (nostro malgrado) dell’anfora psichica occidentale.
Cosa fa il mito
Il mito finge di interessarsi del passato; è solo in apparenza il tentativo di raccontare l’origine dell’uomo o dell’universo, mentre invece ha come scopo quel che deve ancora venire. Il mito, cioè, è lo strumento attraverso cui un uomo o una società del presente utilizza il passato per indicare alla massa un futuro: è una macchina di motivazione, un mezzo di coesione del sentire comune. Il mito, da Platone e in genere da ogni mitografo sociale, è «evocato intenzionalmente dall’uomo per conseguire determinati scopi». Sarà quindi essenziale porre al centro del sistema platonico la mitologia, allo scopo di distinguere in Platone il mito genuino dal mito tecnicizzato. Distinguere, cioè, l’intuizione concreta della realtà spirituale dalla produzione di meccanismi di controllo sociale: nei miti platonici queste due istanze si sovrappongono in modi e qualità molto diversi tra loro. Platone usa i miti per indicare le tracce di un mondo superiore, così che il lettore possa seguirle, ma anche per imporre una visione gerarchica e, come vedremo, totalitaria. Imparare a osservare la compenetrazione del pericoloso e del salvifico nell’opera platonica è una chiave fondamentale per analizzare i nostri pericoli e le nostre salvezze. Per comprendere profondamente i problemi nati dall’aver adottato la forma mentis di Platone bisognerà prima penetrare i miti messi a punto dal filosofo greco, lasciarsi affascinare dalla loro maestosa portata e riconoscerli come guide essenziali per la ricerca della verità. Traghettatore teorico sarà Julian Jaynes e la sua teoria della mente bicamerale, che utilizzeremo per comprendere i motivi dell’operazione mitica attuata da Platone. Infine, negli ultimi capitoli del libro il potere della scrittura di Platone verrà rivolto non più a nostro favore, ma contro di noi.
Consultare Platone
Possiamo oggi comprendere il “mito Platone” attraverso i suoi miti e, quindi, isolarne gli effetti che ha avuto sulla formazione della psiche occidentale, mostrandone inoltre la funzione mantico-manipolatoria: i miti platonici sono infatti un’ottima cartina di tornasole dei traumi della società che li prende in esame, oltre che degli interessi occulti che hanno spinto e spingono a creare e adottare miti. Scegliamo, cioè, di raccontarci i miti di Platone epurandoli dai dati scomodi, modificandone la trama, lo scenario e i personaggi, memorizzandoli senza alcuni passaggi chiave o traducendoli in maniera morbida: eliminiamo il pericolo con cura e nonchalance. Sfuggono all’interpretazione tradizionale pezzi narrativi di capitale importanza, tremendamente attuali e ricchi di potenzialità trasformative. Molti sono convinti che il mito della Caverna narri la storia di un uomo imprigionato che riesce finalmente a liberarsi e, dopo essere scappato, decida, magnanimo, di tornare ad aiutare i propri compagni; o c’è chi è certissimo che Platone amasse la scrittura incondizionatamente. Entrambe le visioni sono false, e ne analizzeremo nel corso del testo le ragioni. Altro scopo del libro è riflettere attorno alla questione degli agrapha dogmata, la teoria delle dottrine non scritte a cui Platone fa riferimento in più parti della propria opera – in particolare nella Settima Lettera, dove ha messo in chiaro di essersi tenuto per sé il meglio della propria filosofia. Il tema degli agrapha dogmata di Platone (espressione contenuta nella Fisica di Aristotele) è stato il fulcro del lavoro di Konrad Gasier e Hans Kramer della scuola di Tubinga prima e di Giovanni Reale e della scuola di Milano poi. In breve, la teoria sostenuta dalle due scuole consiste nella subordinazione dei dialoghi platonici alla vera filosofia espressa dal filosofo greco soltanto a voce ai propri allievi. I dialoghi sarebbero quindi parzialmente comprensibili per chi non possiede la conoscenza di tali dottrine non scritte, incentrate su una metafisica dei princìpi (l’Uno e il “grande-e-piccolo”) al di sopra della teoria delle Idee esposta nei dialoghi. Di conseguenza, per interpretare al meglio l’opera platonica è necessario considerare l’insegnamento orale di Platone superiore (meglio, fondativo) rispetto a quello affidato alla scrittura, seguendo le autotestimonianze che il filosofo ha sparso nei dialoghi.In questo libro, proseguendo idealmente il lavoro delle due scuole, si cercherà di mettere in luce cosa si potrebbe celare dietro alle dottrine non scritte: non una serie di semplici frasi brevi sull’Uno e la Diade infinita, ma la coltivazione delle aree extratemporali della psiche, lo sviluppo di una reale facoltà metafisica che porti i filosofi ad assorbire l’intelligenza e la vera scienza, il cui metodo è magistralmente esposto nel mito della biga alata contenuto nel Fedro.
Cosa può il mito
Il mito, quindi, è la narrazione del passato remoto compiuta dal passato prossimo, così che il presente possa intravedere il proprio futuro. Ma a quale scopo Platone usava i miti? È una domanda centrale, fulcro di innumerevoli riflessioni a cui nei secoli sono state date principalmente due risposte: secondo la prima il loro ruolo nell’opera platonica sarebbe secondario, marginale, talvolta addirittura negativo; la seconda afferma invece che il mito rappresenti la più potente e profonda portata iniziatica del messaggio platonico. Per G.W.F. Hegel il mito è un’impotenza del pensiero, la dimostrazione della sua incapacità strutturale di autosostenersi, di bastare a se stesso. Il mito testimonia un’impotenza comunicativa, la necessità di attingere al mondo sensibile per spiegare l’emergenza dell’intellegibile. Potremmo dire che il mito, secondo questa visione, non svolge la funzione del pedagogista ma del pedagogo: non un formatore, come intende il primo termine, ma un accompagnatore, come invece indica il secondo. Nell’Antica Atene, infatti, il pedagogo era un servo, solitamente anziano, che accompagnava il figlio del padrone a scuola, al teatro, al passeggio, mentre il pedagogista era piuttosto l’educatore. Ed è la prima, per Hegel, la funzione del mito in Platone: accompagnare i lettori verso il fulcro del discorso, situato al di fuori delle immagini e delle storie. «Quando il concetto si è svegliato non servono più i miti», scriveva in Lineamenti di Storia della filosofia. È quantomeno bizzarro considerare che sia proprio il filosofo tedesco, l’autore della più imponente narrazione mitica della filosofia dell’Ottocento, la Fenomenologia dello spirito, a sostenere questa posizione riduttiva del mito.Al contrario, per altri interpreti – tra cui Martin Heidegger – il mito in Platone possedeva una funzione positiva, centrale, capitale; rappresentava l’unica possibilità di spiegare la vita, il culmine più autentico della metafisica. Il mito – al contrario di quanto accade nella visione hegeliana – serve a esplorare quei territori metafisici altrimenti irraggiungibili e impercorribili. Ed è questa la prospettiva attraverso cui verranno interpretati i miti platonici nei capitoli che seguiranno.
Continua ne Il Codice del Mito di Andrea Colamedici, Mursia Editore.