Ci sono luoghi che non si possono parlare, se non con l’arte. E luoghi dei quali neanche l’arte può parlare, se non abitandoli. E nelle zone d’ombra, umide di sangue, anche il solo abitare è rigettato. Non c’è spazio, in certi luoghi e in certe ore, che per il fluire del grado dell’arte, la musica, disarticolata nei suoi elementi più semplici e puri, i rumori. Connessioni armoniche, accenni melodici si spezzano nella nostra identità primordiale, che urlando isterica pretende i colpi del martello, del fabbro rozzo e zoppo che produce colpi sconnessi nel fuoco degli inferi.
Eppure, ci possiamo provare a dire quel femminile che per forza ci volete azzeccare addosso, come una colla nera, pece per la vostra maledetta Ragione. Uomini, che credete di poter analizzare la scintilla primigenia, avete anche bisogno di nominare il nostro utero, attribuendogli magiche proprietà storico-sociologiche. E neanche vi accorgete che i tempi cambiano, che la nostra Isteria è attraversata da un secolo breve ma intenso come un terremoto, del quale neanche vi siete accorti.
Il femminile è una vostra invenzione, come il maschile, perché al mondo altro non esistono se non flussi ininterrotti di soggettivazioni, in cui noi
possiamo, o certo noi sì, inventarci ogni giorno di nuovo. Femminile, maschile, quale ribrezzo queste parole mortifere che evocano secoli di stragi, di roghi e di percosse, millenni di dominio, ribrezzo e ancora ribrezzo a fronte della libertà di inventare il Sesso ogni giorno, ad ogni nascita un simbolo nuovo. Biforcazioni inedite, scagliate non contro Maschio, non contro la Femmina, ma contro la stanca ottusità deprimente delle abitudini criminali che attraversano la Volontà di potenza dei già Potenti. Strutturano il potere, le vostre grigie sessualità, e noi vogliamo destrutturare una volte per tutte i vostri cervelli oziosi! E no, invece no, mi guardo allo specchio e miei capelli mi parlano dei sogni di una bambina, dei capricci dei miei ricci, delle spazzole che mi avrebbero fatto assomigliare alle principesse delle favole. È così che ci hanno cresciuto, e questi miti mi attraversano e prendono la forma del brivido e della lacrima. E le mani del maschio, che mi cingono i fianchi, mi parlano del principe, sul suo cavallo, del potere e dell’eleganza virile, e mi bagnano al di là di ogni difesa e di ogni accusa.
Fino a questo punto siamo schiavi, e siamo schiave, di quell’immaginario che dolcemente ci è stato iniettato nelle vene, come una ninna nanna, come un dolce sogno, infranto contro le rughe che indifferenti mi solcano il viso. E il corpo che ogni giorno si allontana da quei sogni, tanto più decrepito tanto più nostalgico di quella soglia che separa la mia mancanza dal suo fallo. Il nostro sesso, è quello che manca, la mancanza è la forma più sofisticata nella quale siete riusciti a pensare i nostri spaventosi mulinelli di acque e sogni oscuri. Ma noi, che invecchiamo in questi anni, moriremo con i sogni dei castelli e dei cavalli e dei loro sessi eretti, e della loro dolcezza sicura, negli occhi, e con la cieca speranza nel cuore.
Voi, che nascete in questi anni, vi prego, bruciate quei sogni prima che vi mangino l’anima! Sono ingordi e non conoscono ragione, non ascoltano il lamento, impietosi vi formano e poi vi disfanno anima e corpo come cancri silenti! Rigettateli e partite dal vuoto, voi che nascete in questi anni.
Inventate. Libere. I flussi della soggettivazione sessuale sono infiniti, e infinitamente potenti. Noi, abbiamo perso, e non ci resta che aspettare,
chiudere gli occhi, e sorridere a quell’azzurro che avremmo potuto desiderare, e alle bambole che avremmo voluto essere. Per sempre…
Le Crudeltà Barocche