Appunti sull’innocenza del cinema
Di Enrico Carocci
Filme de Amor
Ancora una volta presentato in anteprima italiana a Torino, il nuovo film di Julio Bressane: alla ricerca dell’innocenza del Cinema
“Dalla realtà virtuale elettronica, di computer grafica, dall’olografia è necessario ritornare all’ombra della caverna (…) e ai primi rituali sensibili di espressione artistica. Quante più immagini-macchina ci saranno, tanto più necessario sarà il disegno rupestre, questo primo e piccolo angolo intellettuale del nostro mondo. Dice Rousseau che è stato l’amore a inventare il disegno. Bataille dice che i primi graffiti rupestri sono allusioni sessuali”
Se il cinema di Bressane ha un posto, nella geografia complessa del cinema degli ultimi vent’anni, è quello di chi vuole liberare l’immagine dal bisogno di comunicare. Di chi abolisce ogni sistematicità a favore di un metodo: fare cinema seguendo esclusivamente il principio di piacere.
Ascoltare il desiderio, piuttosto che la necessità. Fare dell’immagine una sensazione.
C’è, in tutto Bressane, quell’innocenza oscena propria dell’infanzia: quella che lo porta, nel 1980, a intitolare Cinema Inocente un film sulla porno-chanchada. Il tabù è allo stesso tempo innocente e crudele, a dispetto delle definizioni che pretendono di essere anche giudizi di valore.
Forse è questo slittamento a rendere possibile il passaggio da “Filme Pornografico” (il titolo inizialmente previsto) a Filme de Amor, l’ultima (2003) faccia del prisma che è il cinema di Julio Bressane.
Un uomo e due donne che giocano sfogando i propri istinti repressi da un lavoro umiliante, è la storia del film che realizza, in piccolo, la storia del cinema di Bressane (che si è dichiarato sempre felice di non appartenere alla catena di montaggio, di non aver mai “lavorato”, come già Debord o Straub): quella di un cineasta che non ha mai smesso di giocare il cinema.
In questo gioco la dimensione è quella della pornografia – nel senso in cui già Carmelo Bene diceva: il porno, in quanto superamento dell’erotismo e della voglia (che è tutta umana, individuale), è simile all’estasi, all’abbandono (Bressane lo chiama ancora erotismo, ma lo pensa appunto come uscita da sé). Allora Filme de Amor si vanta di essere “rozzo, perverso, infantile”: perché il cinema e l’arte in generale devono condurre all’estasi, al superamento della dimensione umana (“l’estasi è divina, il buonsenso è umano”, vi si dice; e anche: “Il cuore umano delira dal desiderio di disumanizzarsi”).
Anche la forma del cinema di Bressane è pornografica, nel senso di una scomposizione negli elementi minimi del linguaggio, e di una ricomposizione per così dire anagrammata, il cui senso non è nella linearità del linguaggio ma nella crudeltà del desiderio, nelle ripetizioni, nell’insistenza con cui tornano a proporsi gli sguardi sugli oggetti del desiderio (ad esempio la sommità di un edificio, che la macchina da presa torna ossessivamente ad inquadrare al di là di ogni esigenza narrativa o descrittiva, oppure la grande vagina depilata a tutto schermo). A questo proposito si è parlato di “stile disgiuntivo” (Ismail Xavier) per una macchina da presa che, continuamente, diverge.
“L’anagramma è l’inconscio del linguaggio nel testo”, è ciò che fa apparire quanto il linguaggio di solito lascia implicito, è l’apertura a nuove emozioni a partire da immagini cinematografiche che sono, in sé, sempre le stesse. Ma, appunto, anche le immagini devono uscire da sé, raggiungere quell’estasi a cui si accennava prima, insieme mistica e pornografica.
Filme de Amor è una summa cinematografica, nel senso in cui una faccia del prisma racchiude in sé, in qualche modo, tutte le altre, pur mantenendosene differente. Quella del prisma, ripetiamo, è un po’ la figura del cinema di Bressane: a seconda di quale delle facce si voglia considerare, vi si entra a partire da un elemento che può essere il problema della traduzione con San Girolamo, la follia del filosofo con Nietzsche, la cultura antropofagica del Brasile, la bossanova, la letteratura dell’”autore defunto” di Machado de Assis, i Sermoni di padre Antonio Vieira, la sublime pornografia della Nascita di Venere del Poliziano (che è alla base di Filme de Amor). Un cinema insieme sfaccettato e coeso che, alla fine, riporta tutto al proprio nocciolo: “al di là delle maschere, dice Bressane, il film parla di se stesso – e il se stesso è il cinema”.
Nel finale di Filme de Amor, alla terza ripetizione differente del ritorno al lavoro dei tre protagonisti, una delle ragazze guarda in macchina, con la nostalgia dei giochi d’amore ormai lasciati alle spalle. A questo sguardo segue, conclusione del film, l’immagine della baia di Rio, che in Bressane è l’immagine del Mito brasiliano, barbarico e infantile. Questo rivolgersi alla macchina da presa non è solo un rivolgersi allo spettatore, è piuttosto un guardare al cinema in generale, alla fonte del cinema, qui identificata (per metonimia) con il Mito e dunque con qualcosa di irrazionale ed estatico, intraducibile.
“Il Brasile è esso stesso un gigantesco e spaventoso segno rupestre”.
È la nostalgia dell’immagine, che chiede di essere sottratta al lavoro per ritornare finalmente al proprio gioco. Che chiede di tornare ad essere, ancora, oscena e innocente.