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Guerra civile spagnola. Durante uno spettacolo circense, i due pagliacci in scena vengono arruolati a combattere nell’esercito repubblicano. Uno di loro viene arrestato e costretto a lavorare per lo stato. Il giovane figlio Javier organizza un attentato per vendicarsi dei soprusi subiti ma, nello scoppio, muore anche il padre. Da grande, sotto la dittatura di Franco, viene assunto come Pagliaccio triste in un circo, dove incontra Sergio, il suo alter ego sorridente, con il quale dovrà dividere il palco e l’amore per l’acrobata Natalia.
I mostri politici della storia – raccolti nel quadro spaventoso dei titoli di testa – hanno una responsabilità precisa nei confronti di chi governano. Se il potere impera attraverso repressioni violente, il popolo subisce le conseguenze di quella prepotenza perchè diventa parte di essa, pur senza averne la colpa. Come un virus insidioso, il terrore della guerra civile spagnola mette radice in corpi indifesi come quello del piccolo Javier. Il padre, pagliaccio per mestiere e tradizione, lo invita ad assaporare il fascino della vendetta, investendolo di una missione distruttiva che si alimenterà inesorabilmente, malgrado le occasioni di rinsavimento poste dal destino.
De la Iglesia recupera, dopo la più rarefatta narrazione di Oxford Murders, l’uso dotto del grottesco de La Comunidad.
Potrebbe sembrare azzardato e inopportuno tramandare la Storia ai posteri attraverso lo sguardo di un pagliaccio impazzito, prima schiavo della sua bontà, poi vittima di un’inarrestabile rincorsa alla ritorsione. Il regista, invece, riesce a coniugare la maschera del clown triste e il corredo di suggestioni che il personaggio porta con sè, con il dramma di un paese smunto di umanità, felice solo nei telegiornali di propaganda franchista.
Il solitario Javier morde se stesso e gli altri, deturpa il viso del suo nemico Sergio e uccide tutti quelli che impediscono la rivincita sui potenti. L’oggetto del desiderio Natalia scappa ma è, allo stesso tempo, attratta dal male. Tutti i personaggi aderiscono ad un’idea di vita fondata sul masochismo, come a dire che in quel particolare atteggiamento, si nasconda l’unico modo per resistere al dolore provocato dagli altri. L’estremizzazione dei caratteri si accorda con la costruzione di scene di esagerata violenza, dove solitudine e tristezza si incontrano e danzano insieme sulle note malinconiche di una ballata ipnotica e seducente.Alex De la Iglesia è uno sporco geniaccio spagnolo che da quando ha cominciato a fare film ha sondato l’anima oscura, mortifera, sanguinaria del genere umano e delle sue passioni, perdendo con gli anni il tocco trash e cialtrone e guadagnando in compattezza e raffinatezza registica. Con questo suo ultimo film, in concorso alla Mostra di Venezia 2010, raggiunge forse l’apice della sua carriera.
Un melodramma circense che recupera archetipi classici come Il gobbo di Notre Dame o Freaks ma che diventa, nella sceneggiatura dello stesso de la Iglesia, una grottesca tragedia metaforica e disperata. Il film, infatti, racconta un mondo di emarginati e “alieni”, che vivono solo per il godimento della gente ma che non riescono a comprendere e vivere la propria dimensione emotiva, tanto da diventare mostri, bestie sanguinare che distruggono tutto e tutti, specie se stessi. De la Iglesia usa questa umanità come controcanto di una nazione moralmente e politicamente devastata, che sta cominciando a fare i conti con se stessa (siamo alla metà dei ’70, alla fine del regime di Franco) prima di tornare a respirare.
Il regista mescola le carte in modo furioso, parte con l’azione violenta del war movie, ripiega sul grottesco estremo per poi approdare sempre più forte nel dramma romantico; il tutto condito da stilizzazioni, eccessi, sesso e violenze estreme. Ma la dimensione più intima della sceneggiatura (ancora una volta notevole, specie nell’utilizzo classico del trapezio) è quella della fiaba e della parabola con un finale che va da Cristo a King Kong che lascia esterrefatti, a riprova dell’ormai evidente maturità e completezza registica di De la Iglesia: che ci mette tanto, tutto, troppo e in toni esasperati. E può infastidire, ma sa creare uno spettacolo macabro e magniloquente, stilizzato e sontuoso, che colpisce lo spettatore continuamente: non ultimo con la bellezza esagerata di Carolina Bang, perfetto angelo tentatore contro i demoni Antonio de la Torre e Carlos Areces.