si propongono oggi due opere in qualche modo collegate: Jesus, You Know di Ulrich Seidl e Lourdes di Jessica Hausner (2009).
Entrambe si inoltrano in un area estremamente delicata che è da molto tempo oggetto di un interesse primario da parte dell’autore di questo blog.
E’ sempre difficile trovare una definizione per le opere di Ulrich Seidl. Semi-documentario, “Jesus, you know”, si propone di sondare ulteriormente il terreno delle ossessioni e delle manie di una contemporaneità austriaca chiaramente assunta a sineddoche del mondo tutto. Dopo varie ambientazioni tematiche profane (“Animal love”, “Models”, “Dog days”) il regista viennese prova a dare una visione personale ed agghiacciante della religione e della religiosità. Argomento scomodo, delicatissimo e rischioso. Rischiosa è pure la coraggiosa scelta di un film raccontato oralmente più che visualizzato, anche se le due forme espressive si riveleranno le due facce di una stessa medaglia, concorrendo entrambe a creare un piccolo universo coerente e autoconcluso.
La staticità (per altro usuale in Seidl) è accentuata agli estremi tanto che ci troviamo costretti di fronte ad una serie di confessioni a voce alta e a macchina da presa immobile di un’umanità cattolico-religiosa varia e problematica. Una coppia multietnica che trascina stancamente un matrimonio ormai logoro, un uomo separato dall’infanzia dolorosa, un adolescente assillato dalla sua (naturalissima) sessualità, un’anziana signora che medita vendetta contro il marito adultero, due giovani fidanzati il cui rapporto entra in crisi. Storie di ordinaria (e forse banale) quotidianità che prendono una forma grottesca e inquietante nelle invisibili manipolazioni registiche.
La mancanza di comunicazione interpersonale, la freddezza dei rapporti, il gelo relazionale sfocia in accorati monologhi ora strazianti e lacrimogeni ora ingenui (rasentando la comicità), ora entrambe le cose (esemplare la lunga preghiera finale della vecchia signora che chiede una morte indolore), rivolti a una divinità lontana e asettica. Si respira sentore di disinfettante più che di spiritualità, dubbio più che certezza, spaesamento più che gratitudine. L’uomo è solo, cerca conforto in grandi chiese vuote, ammantate da un silenzio pneumatico. Invece di risolvere concretamente le difficoltà della vita, si affida ad un dialogo speranzoso ma inutile con Dio che inevitabilmente si trasforma in un monologo autistico e sterile.
Se l’espediente filmico del flusso di coscienza può stancare, non stancano i vari protagonisti dell’opera: problematici, patetici e irrequieti. La lente d’ingrandimento del regista non risparmia nessuno. Quello che stupisce è l'(apparente) assenza di giudizi autoriali sul rappresentato, la cui forza è data dall’assoluta veridicità della messa in scena.
La realtà è enormemente più spaventosa della finzione.